top of page
Microphones

Intervista

Marco Petrelli 

marco%20petrelli_edited.jpg

Marco Petrelli, fotoreporter

 

Laureato in Storia e Società (curriculum Storia e Politica Internazionale) all'Università degli Studi di Roma Tre e in Storia contemporanea  all'Università degli Studi di Firenze, si occupa di esteri e di difesa. Ha realizzato servizi embedded con le Forze Armate in Italia e in teatro operativo. È autore di due libri sull'aeronautica e de I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia 2020). Collabora ed ha collaborato con: AffarInternazioni, GQ, Libero, Il Giornale, OFCS Report. E autore di alcune ricerche comparse sul magazine francese Aerojournal. 

​

Si può visitare qui il suo sito web

  • Secondo lei, la guerra civile in Libia sarebbe durata così a lungo senza l'intervento delle potenze straniere?

​

A mio parere questa guerra non sarebbe affatto cominciata… se le potenze straniere avessero evitato prima di fomentarla, poi di intervenire per procura. Mosse da motivi condivisibili, quelle che i media internazionali hanno chiamato “primavere arabe” sono state tutt’altro che un movimento univoco, poiché ciascuna è stata mossa da motivi diversi. In Egitto, ad esempio, dopo la fine del regime di Moubarak, Morsi (eletto nel 2012 e legato ai Fratelli Musulmani) fu rovesciato dal prosieguo delle proteste. Va da sé, dunque, che le ragioni del malcontento fossero legate a problemi (disoccupazione, corruzione, mancanza di prospettive) non dipendenti dall’orientamento “ideologico” dei rispettivi governi, bensì dalla incapacità (o impossibilità) di quei governi a porvi rimedio.

Va aggiunto inoltre che la posizione geografica di Tunisia, Siria, Libia, insieme alle loro criticità economiche e politiche, avrebbero dovuto spingere le potenze “interventiste” ad una valutazione più oculata dell’eventuale scenario post-rivoluzione. La Libia, ad esempio, nel corso della sua storia ha goduto di pochi momenti di relativa stabilità: sotto l’Impero Romano, poi con i turchi ottomani. Inseguito alla conquista italiana del 1912, solo il Governatore generale Italo Balbo riuscì ad amministrare una colonia sfiancata sia dalle operazioni di contro-guerriglia condotte da Graziani, sia dalle lotte interne fra i diversi clan ne componevano (e ne compongono) il tessuto sociale. La resistenza senussita animata da Omar al Mukhtar  (la cui foto Gheddafi portava orgogliosamente appuntata al petto durante la visita in Italia del 2010) fu dilaniata ed indebolita da divisioni tribali che giocarono a favore degli italiani. Infine, il quarantennio di “regno” di Muhammar al Gheddafi consentì alla nazione libica di diventare una fra le più stabili e prospere del continente africano. Ciò non vuol dire che nella Libia di Gheddafi mancassero i problemi: la dittatura del Colonnello fu particolarmente dura, vero. Ma la vita dei cittadini era paragonabile ai regimi dell’Est: lo stato copriva le spese essenziali, sanità in testa; il costo della vita era proporzionato agli stipendi che, a quanto riportato dal giornalista italiano Pino Scaccia, nel 2008 erano di circa 400 euro al mese.  E il dittatore, Gheddafi, garantiva al suo popolo quel minimo che bastava per una vita dignitosa… e per evitare potenziali rivolte.

La Libia del dopo Primavere arabe si presenta come un paese confuso e diviso, con fazioni in lotta, instabilità politica e sociale ed influenza straniera ancora particolarmente forte. In Siria, invece, la presenza militare russa (che risale agli Anni ’70) avrebbe dovuto far capire che Mosca difficilmente avrebbe lasciato quello che, di fatto, è il suo unico sbocco sul Mare Mediterraneo.

​

 

  • Sui giornali leggiamo che la rivalità franco-italiana rappresenta un freno al processo di pace. Qual è il suo parere a riguardo, visto anche il ruolo crescente di altre potenze in Libia?

​

La Libia è da anni terreno di scontro di una guerra per procura, ovvero condotta da potenze straniere che appoggiano ed armano milizie e fazioni sul campo. Caso recente la rivolta dei soldati di ventura inviati da Erdogan in sostegno di al-Sarraj per contrastare la lunga offensiva (14 mesi) di Haftar, lanciatosi alla conquista di Tripoli. Rivolta nata dal mancato pagamento da parte turca degli stipendi.

​

(Cf risposta n°4)

 

​

  • La Francia e l’Italia sono due paesi vicini, entrambi membri dell’Unione Europea e della NATO, eppure sono due stati che possiedono punti di vista differenti oltre a considerarsi rivali sulla questione libica. A suo parere, questo potrebbe rappresentare un esempio delle divergenze e della pluralità degli interessi politici degli stati membri dell'UE?

​

La Francia e l’Italia sono due paesi vicini geograficamente e storicamente. Condividiamo buona parte di quella cultura alla base della identità europea che, nei rispettivi paesi, si è consolidata attraverso secoli di relazioni diplomatiche, culturali, politiche, commerciali. Tuttavia restiamo nazioni con diverse prospettive e diversa proiezione degli interessi nazionali. Siamo entrambi parte di UE e NATO, vero, ma lo siamo stati (e continuiamo ad esserlo) in modo diverso: la Francia ha lasciato l’Alleanza Atlantica nel 1966 per volere di De Gaulle, restandone fuori fino al 2009. L’Italia, al contrario, non ha mai abbandonato la NATO nella quale ricopre peraltro ruoli importanti. Nell’anno 2005 Roma guidava cinque missioni: Afghanistan, Bosnia-Erzegovina, Albania, Striscia di Gaza (EUBAM) e Kosovo (KFOR). Ecco, nella KFOR 12 dei 25 comandanti sono stati italiani, 8 dei quali si sono susseguiti dal 2013 ad oggi. Nell’ambito di Resolute Support (Afghanistan) quello italiano è il quarto contingente (895 militari) dopo USA, Gran Bretagna e Germania.

La Francia non ha mai guidato missioni NATO nelle quali, inoltre, schiera un numero limitato di truppe. Una situazione, con ogni probabilità, dettata non soltanto dalla lunga assenza dall’Alleanza, bensì da una visione “diversa” degli impegni, militari, internazionali dell’Eliseo.

Dall’Indocina al Mali, infatti, le guerre francesi sono state combattute nei territori dell’ex impero coloniale. E se i conflitti indocinese (1945 - 1954) ed algerino (1955-1962) erano indirizzati a preservare il controllo sui domini d’oltremare oggi, in una epoca in cui il colonialismo è un lontano e sbiadito ricordo, l’intervento maliano è dettato da esigenze di sicurezza internazionale e, altresì, da ragioni di carattere politico-economiche. Gli interessi energetici legati ai giacimenti di uranio lungo il confine con il Niger spingono molti analisti a dubitare che la presenza francese si limiti alla sola lotta contro il jihad.

In otto anni di guerra, però, la situazione non è affatto migliorata: un colpo di stato lo scorso agosto, le milizie estremiste che continuano a colpire con durezza e 55 militari francesi morti mostrano il fallimento delle operazioni dell’Armée.

​

​

  • Secondo lei, cosa sarebbe necessario per far sì che Roma Parigi trovino un accordo ? Una volontà congiunta di contrastare l'influenza russa e turca, potrebbe rappresentare una valida motivazione per trovare finalmente un punto di incontro?

​

Il tutto si gioca su quanto e su cosa si sia disposti a rinunciare. In Libia l’Italia sostiene il Governo di Unità azionale di al-Sarraj insieme ad ONU, UE ed insieme alla Turchia. Sostegno peraltro confermato anche nell’ultima visita del leader tripolino del 9 gennaio. Al Sarraj, che avrebbe dovuto dimettersi in ottobre, probabilmente resterà in carica sino alle  elezioni previste per il prossimo dicembre e Roma si manterrà al suo fianco.

La Francia, malgrado paese membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e membro UE, è dalla parte del Maresciallo Khalifa Haftar che riceve inoltre il sostegno di altri importanti “sponsor” internazionali: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Russia.

La Turchia per Tripoli ed Arabia Saudita e Russia per Bengasi sono alleati importanti, ma anche pesanti: non è infatti un segreto che al-Sarraj inizi a mal tollerare l’interferenza di Ankara nella sua politica interna. Nell’agosto scorso, ad esempio, il Ministro dell’Interno libico Fathi Bashagha è stato destituito e reintegrato da al-Sarraj nel giro di pochi giorni. Il ministro sarebbe un uomo legato ai turchi, il che fa sospettare che dietro il ritorno in carica vi sia Erdogan.

Haftar non è in una situazione migliore: vero che la Cirenaica è “sua”, ma gli aiuti economico-militari non sono gratuiti e il conto sarà salato.

Lei mi domanda se contrastare l'influenza russa e turca, potrebbe rappresentare una buona motivazione per trovare finalmente un punto di incontro. Bene, le rispondo così:  il leader riconosciuto dalla Comunità internazionale è al Sarraj, legato però ai Fratelli Musulmani. Haftar, un ex generale di Gheddafi, è sì ostile ai F.M., ma ha alle spalle nazioni con le quali l’Unione Europea difficilmente accetterà di collaborare, in primo luogo per ragioni strategiche. Esprimere infatti sostegno al Maresciallo di Cirenaica significherebbe aprire a Mosca e agli EAU, facendo così uno smacco alla Turchia, paese lungo i cui confini settentrionali premono milioni di profughi che vorrebbero raggiungere l’Europa o, meglio, la Germania. E non penso che Berlino sia ben disposta ad accogliere in massa quei disperati, pertanto non starebbe ferma qualora Roma e Parigi dovessero muoversi autonomamente, seguendo una loro linea politica che andrebbe a danneggiare gli interessi tedeschi.

​
 

  • Sappiamo bene che il tema dell'immigrazione clandestina rappresenta un punto di contrasto tra i

paesi dell’Europa mediterranea, tra cui l'Italia, e il resto dell'UE. Conosciamo anche molto bene le tragiche condizioni umanitarie che i migranti vivono in Libia. L’Italia, sotto l’egida dell’UE, ha rinnovato un accordo controverso, volto a trattare nei confini libici il problema dell’immigrazione clandestina. Questa è la conseguenza del massiccio afflusso di migranti che l’Italia vede sbarcare sulle sue coste: in assenza di una reale solidarietà europea in materia di immigrazione, questo accordo verrà probabilmente rinnovato quanto più a lungo possibile. 

Secondo lei, quali provvedimenti dovrebbe adottare l’UE per gestire in maniera sostenibile e umana questa crisi migratoria, sia per i migranti che per i paesi membri ? 

​

Al momento, l’Italia è impegnata in Libia con 5 missioni internazionali: bilaterale, Eunavfor, Irini, UNSMIL ed EUBAM, tutte orientate alla sicurezza e al contenimento degli illeciti legati al traffico di esseri umani. Senza contare la già citata missione di supporto nel Sahel, autorizzata dal Governo italiano lo scorso agosto. Stando ai dati della Camera dei Deputati, nel 2020 la spesa italiana per il sostegno delle suddette operazioni è stata di 50 milioni di euro, più i 10 milioni destinati all’addestramento della guardia costiera libica.

Come può notare non vi è alcun subappalto, semmai una partecipazione piena alla risoluzione di un problema di fronte al quale l’Unione Europea non si è mostrata compatta e decisa, specie con i paesi dell’Europa orientale la cui linea sulla ripartizione dei migranti è di netta contrarietà. Né il recente Accordo di Malta (ottobre 2019) sembra aver sortito gli effetti sperati: la Danimarca, ad esempio, ha espresso netta contrarietà all’ingresso di migranti entro i suoi confini.

Non che i membri più grandi ed influenti dell’UE diano il buono esempio. Meta della maggior parte dei clandestini in viaggio è la Germania, seguita dal Regno Unito e dalla Francia, nessuna delle quali è interessata ad accogliere centinaia di migliaia di persone. 

Parliamo dei rapporti tra Parigi e Roma. Bene, verso la Francia si muovono gli africani provenienti dall’ex France Afrique che cercano di passare il confine in ogni modo, anche attraverso i vecchi sentieri di montagna un tempo usati dalla Resistenza.  E noi italiani, tutti, abbiamo negli occhi l’atteggiamento delle autorità francesi che respingono, spesso con durezza, i migranti oltre il confine di Ventimiglia, talvolta oltrepassandolo. Nel marzo 2018, ad esempio, fece molto scalpore l’ingresso di agenti doganali di Parigi in un centro per migranti a Bardonecchia.

Alla luce di questo non penso che l’UE voglia trovare soluzioni al problema, subappaltandolo così a noi. La logica parrebbe essere la stessa già usata con Erdogan, soldi in cambio di migranti. Con la differenza, naturalmente, che le risorse, gli spazi e anche il tipo di trattamento usato nei confronti di queste persone cambia molto fra italiani e turchi.

Infine, la nostra politica estera non c’è d’aiuto e sembra remare contro gli interessi stessi della nazione. Ogni qualvolta si affronti il tema migranti si fanno avanti partiti, sindacati, associazioni laiche e religiose che ricordano il dovere di accogliere. Nella realtà dei fatti intorno all’accoglienza è nato una sorta di business. Circa il 70% delle richieste di asilo come rifugiati presentato alle autorità italiane viene respinto. I richiedenti fanno ricorso e, nel frattempo, alloggiano e mangiano in strutture gestite da cooperative ed associazioni… che hanno vinto l’appalto per la sistemazione dei migranti.

Nessuna beneficienza, dunque, un modo semmai per dare impiego a psicologi, mediatori culturali, “volontari” che in un momento di crisi del mercato del lavoro quale quella che affrontiamo arrotondano grazie ai migranti.

L’Europa inoltre non si è espressa circa gli sbarchi “fantasma”, cioé l’arrivo sulle coste italiane di lance e gommoni che sfuggono al controllo marittimo e che, comunque, difficilmente si potrebbe fermare. Un conto, infatti, è bloccare una grossa nave un altro intercettare e fermare una barca dove la reazione, improvvisa, degli scafisti metterebbe a repentaglio la vita dei tanti che sono a bordo.

L’Unione Europea, infine, non è mai stata chiara sulla posizione delle ONG che operano nel Mediterraneo: se da un lato i salvataggi in mare vengono applauditi dall’opinione pubblica dei paesi del nord-Europa, dall’altra nessuno di loro sembra essere intenzionato ad accettare l’eventuale arrivo nel proprio paese.

bottom of page